In balia delle ond(ate)
di Federica Giusti - venerdì 11 dicembre 2020 ore 07:30
Inutile dire che, con la seconda ondata, la nostra stabilità psico fisica è stata nuovamente e duramente messa alla prova.
In Toscana, nel giro nemmeno di una settimana, siamo passati da essere una regione gialla, alla zona arancione (durata quanto un gatto sull’Aurelia, passatemi la battuta!) a quella rossa. Adesso siamo di nuovo arancioni, chissà come andrà a finire.
Ma a parte i colori, quello che davvero cambia è il modo in cui viviamo le nostre giornate e la nostra idea di libertà. Per ogni salto da un colore all’altro, perdiamo o riacquistiamo parti di quotidianità.
Ed in tutto questo, un tema scottantissimo che è direttamente connesso alle varie zone di rischio contagio, è sicuramente quello del lavoro.
Chi lo ha un lavoro, in questo momento, spesso è costretto a ritmi serrati e deve costantemente fare i conti con l’organizzazione degli ambienti e degli strumenti. Sanificate, indossare i dispositivi di sicurezza, mantenere la distanza interpersonale sono ormai diventate azioni della nostra routine quotidiana, che, inevitabilmente, si vanno a sommare alle ore di lavoro e alle mansioni presenti anche prima del Covid.
Dall’altra parte, invece, ce chi, ancora, non può esercitare la propria professione, perché considerato luogo potenzialmente rischioso per il propagarsi dei contagi.
O ancora chi, magari, a causa del Covid, il lavoro lo ha proprio perso.
Ci sono coloro che sono stati considerati facenti parte di una categoria professionale tale da non dover riaprire. E l’idea di fare un lavoro non necessario o, addirittura, socialmente pericoloso, può mettere veramente in difficoltà quella persona. Non solo economicamente parlando, ma, soprattutto, psicologicamente. In queste settimane ho avuto modo di parlare in studio con molte persone che si sono lamentate proprio dell’idea di essere state individuate come possibili untori in questo contesto.
Poi ci sono quelli che stanno lavorando intensamente, come prima e più di prima, che avrebbero voglia e necessità di fermarsi e, perché no, lamentarsi un po',e non possono farlo, se ne vergognano, sentendosi irrispettosi verso chi il lavoro non lo ha.
E alla fine, oltre la seconda ondata, oltre al rischio di contrarre il Covid, c’è quello delle conseguenze psicologiche legate al lavoro. Tra coloro che lavorano a ritmi serrati e, talvolta, ai limiti delle proprie possibilità, a coloro che hanno dovuto rinunciare alla propria attività, il rischio è, a mio avviso, che la futura forza lavoro post Covid, possa trovarsi veramente in difficoltà ed affaticata a tal punto da diventare meno produttiva ed efficace.
E, da psicologa, credo sia importante preoccuparci ed occuparci della salute, non solo fisica, ma anche psicologica di questi cittadini. Quel che tocco con mano ogni giorno durante le sedute è proprio questo malessere diffuso, questa stanchezza mentale e fisica che sembra essere ormai parte integrante delle nostre vite.
È importante non sommerge queste manifestazioni di dolore emotivo, non fare finta di niente, non voltarsi dall’altra parte. È fondamentale, a mio avviso, occuparci di ascoltare ed accogliere le richieste di aiuto che arrivano in questo periodo.
Non mi fraintendete, adesso non parlo da psicologa ma da cittadina: curiamo oggi prima di trovarci domani con un numero considerevole di diagnosi Psi in giro, che non fanno bene a nessuno di noi, non fanno bene alla nostra comunità.
Tendiamo la mano, drizziamo le orecchie, siamo tutti sulla stessa barca, anche se ognuno sente la pesantezza delle proprie difficoltà, dobbiamo davvero capire che l’unione fa la forza e che chiedere aiuto non è sinonimo di debolezza, tutt’altro!
Federica Giusti