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PENSIERI DELLA DOMENICA — il Blog di Libero Venturi

Libero Venturi

Libero Venturi è un pensionato del pubblico impiego, con trascorsi istituzionali, che non ha trovato niente di meglio che mettersi a scrivere anche lui, infoltendo la fitta schiera degli scrittori -o sedicenti tali- a scapito di quella, sparuta, dei lettori. Toscano, valderopiteco e pontederese, cerca in qualche modo, anche se inutilmente, di ingannare il cazzo di tempo che sembra non passare mai, ma alla fine manca, nonché la vita, gli altri e, in fondo, anche se stesso.

DIZIONARIO MINIMO: Per Giove!

di Libero Venturi - domenica 13 gennaio 2019 ore 07:00

«Non vanno d’accordo, non stanno insieme/ maestà ed amore», scrive Ovidio nelle «Metamorfosi». In effetti l’amore sarebbe meglio seguisse altre strade, ma potere e sesso spesso si intersecano e quasi sempre incasinano le cose. Ciò vale per gli uomini, ma nell’antica Grecia e nell’antica Roma, valeva anche per gli dei. Forse perché gli dei già da allora avevano concepito gli uomini a loro immagine e somiglianza. Sopratutto Zeus, il lanciatore di fulmini dei Greci, Giove pluvio per i Romani più temperati, il padre di tutto l’Olimpo, eccelleva nei vizi dell’arte amatoria più propriamente umani. Anzi c’aveva proprio un chiodo fisso in materia di donne e non solo. E aveva anche la passione e il potere di trasformarsi che usava per raggiungere lo scopo e soddisfare le sue brame. Attingendo dalle «Metamorfosi» ripassiamo insieme alcune delle sue più celebri tresche amorose e dei suoi più riusciti travestimenti.

Toro per Europa.

Narra Ovidio che Giove, vide una bellissima fanciulla di nome Europa raccogliere i fiori insieme ad altre coetanee nei pressi di una spiaggia. Un classico. La fanciulla era figlia di Agenore, re di Tiro, antica città fenicia. Giove se ne invaghì -della fanciulla, ovviamente, non del re o della città- ed escogitò un piano per rapirla. Dopo aver chiamato il fido Mercurio ed avergli ordinato di far scendere i buoi di Agenore -che era un re mandriano- verso la spiaggia, Giove si trasformò in un candido toro. Candido nel senso di bianco. Si stese ai suoi piedi ed Europa, conquistata dalla bellezza e dalla mansuetudine dell'animale, gli sedette sul dorso. Mai fidarsi dei tori, ancorché candidi. Subito il toro si alzò ed iniziò a correre velocemente verso il mare che attraversò fino a raggiungere l'isola di Creta. Qui Giove rivelò alla fanciulla la sua vera identità e tentò di usarle violenza, ma Europa resistette. Allora la mitologia dice che il dio, abusando del suo potere di trasfigurazione e non solo di quello, si trasformò in aquila e riuscì a sopraffare Europa e addio core! Fu in un boschetto di salici o, secondo altri, sotto un platano sempre verde, ma non mi pare questo il problema. Oggi sarebbe stato vituperato, bestemmiato o perseguito dalla legge. Il movimento «Me Too» l’avrebbe fatto a pezzi, sarebbe stato processato per molestie sessuali e allontanato dall’Olimpo. Invece fu un mito.

In sostanza Zeus, altrimenti detto Giove, il più potente tra gli dei, che, tra tutti gli altri poteri, aveva quello, temibile, di scagliare fulmini errabondi e a triplice punta, li depose momentaneamente incapricciato di Europa. Fulminato a sua volta, potremmo dire. Un fulmine a ciel sereno: i peggiori e più pericolosi. I più fatali, essendo il fato superiore agli dei e l’amore superiore agli uomini. La virgola tra «depose» e «momentaneamente» non ce l’ho messa apposta per dare all’avverbio di tempo un doppio riferimento: sia alla deposizione del fulminante potere, sia alla folgorante infatuazione. Che però, almeno secondo i tempi umani più contingentati, non fu proprio di brevissima durata, non un semplice capriccio o una banale avventura extraconiugale, ma un vero e proprio innamoramento. Una relazione, insomma. Visto che Giove ebbe da Europa ben tre figli. In genere gelosa e vendicativa, la dea Giunone, sua sorella e moglie - dei e re si sposano fra sé- invece non vide o chiuse un occhio. Così Europa divenne la prima regina di Creta. Tra i figli della fedifraga coppia ci fu anche Minosse, quello del Minotauro e della civiltà minoica: fu padre dell’uno e dell’altra. Giove successivamente ricreò la forma del toro nelle stelle che compongono l’omonima Costellazione. I Greci diedero il nome Europa al continente che si trova a nord di Creta, il nostro. Europa sembra significhi «dall’ampio sguardo», speriamo. È stata chiamata Europa, anche una delle numerose lune del pianeta Giove. Tutto ciò accadde in Grecia cinque generazioni prima di Eracle: a.E. si potrebbe scrivere, abbreviando.

Cigno per Leda.

Giove scorse Leda, moglie di Tindaro re di Sparta, mentre si rinfrescava presso un fiume e, invaghitosi della giovane, le si presentò sotto forma di cigno. Frutto della loro unione furono due uova: da uno nacquero i gemelli Castore e Polluce, i Dioscuri, appunto figli di Zeus e dall’altro Clitemnestra ed Elena, la futura e famosa Elena di Troia. E non fate commenti. Ci sono però varie versioni del mito. Pare che nella stessa notte Leda giacque anche con il marito e non si limitò a giacere, né accusò il solito mal di testa. Così da queste unioni sortirono figli immortali di Zeus e figli mortali di Tindaro. Entrambi figli di buona donna e gemelli diversi. Poi la cosa sarebbe anche più incasinata. Secondo alcune voci, Zeus durante un volo di ricognizione in versione cigno, inseguito da un’aquila -chi la fa l’aspetti- si rifugiò nel grembo di Nemesi, che, guarda caso, inseguiva da tempo. Chissà che l’aquila non fosse una scusa. Nemesi era una dea, figlia di Notte, la madre, e di Oceano, il padre. O addirittura di Zeus stesso e qui sorvoliamo davvero anche noi. In seguito al fatale e forse incestuoso amplesso Nemesi depose un uovo che il solito compiacente Ermes, per i romani Mercurio, mise tra le cosce di Leda mentre era seduta a gambe divaricate. Anche per questo si raccomanda alle giovani di stare composte. E Leda si limitò a «covare» quell’uovo da cui nacquero Elena e i Dioscuri. Clitemnestra non si sa. Chissà perché mi ricorda «Qualcuno volò sul nido del cuculo». Leda fu divinizzata in seguito col nome di Nemesi, dea della giustizia e per taluni giustizialisti della vendetta o del castigo. Famose anche la Nemesi alata e quella storica. E pare che anche la tradizione dell’uovo pasquale abbia qualcosa a che vedere con questo mito.

Aquila per Ganimede.

Ovidio racconta che Giove non era affatto omofobico e non disprezzava gli amori omosessuali che in Grecia erano più che leciti. Taluni ritenevano, anzi, l’amore tra uomini filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne. Ognuno ovviamente ha i suoi gusti e la sua filosofia. Pensare a quanto hanno patito Oscar Wilde e Alan Turing nella libera e civile Inghilterra! E che dire degli amori saffici, dal nome della poetessa Saffo dell’isola di Lesbo nell’Egeo, forse per Platone la decima musa! Insomma, Giove s’invaghì di Ganimede che aveva già fatto innamorare di sé uomini e dei. Era infatti un giovane bellissimo, principe del popolo troiano, figlio di Troo re dei Dardani e di Calliroe, una delle Naiadi che erano le ninfe soprintendenti alle acque dolci. Un po’ come l’Autorità di bacino dell’Arno, ma di più. Giove, trasformatosi in un’aquila, e ridalli, rapì il giovane e, facendo incazzare parecchio la consorte Giunone, detta Era dai Greci, lo portò sull’Olimpo dove si era liberato un posto da coppiere. In cambio dette a suo padre una coppia di cavalli divini ed un tralcio di vite d’oro. E il padre si consolò pensando all’acquisita immortalità del figlio il quale avrebbe versato in eterno da bere agli dei. Che sono soddisfazioni! Anche Ganimede ha dato il nome ad un satellite del pianeta Giove: quello più grande.

Nuvola per Io.

Nelle Metamorfosi Ovidio dedica a Giove e alla ninfa Io, figlia del fiume Inaco, un ampio e affascinante racconto. Giove aveva visto Io che tornava dal fiume paterno e, salutatola così: «O vergine degna di Giove che farai beato chissà chi, quando ti sposerai», quasi a richiedere un antesignano «ius primae noctis», le aveva indicato la via delle ombre dei boschi, anche perché il sole era alto e faceva caldo assai. Le diceva di non temere i pericoli e le fiere perché lui, con in mano lo scettro del cielo, l’avrebbe protetta. Tuttavia la ninfa fuggiva. Non mi fuggire, implorava il dio, finché si stufò, nascose la terra sotto una fitta nube di cui lui stesso prese le sembianze o forse solo protetto da essa, fu sopra di lei, «fermò la sua fuga e le rapì il pudore». Possedete Io.

La nube doveva servire anche a proteggere Giove da Giunone che, però, conoscendo le scappatelle del marito, spesso colto in fragrante, si insospettì per tutta quella nuvolaglia scura in pieno giorno e pensò: «O mi sbaglio o siamo tradite». Scese sulla terra, diradò le nebbie e, adirata, cominciò a perseguire l’incolpevole Io, che frattanto Giove, tentando di nascondere il tradimento, aveva trasformato in giovenca. Ma Giunone non era scesa dall’Olimpo con la piena, né era nata ieri, anche se per i Greci era Era; che confusione linguistica questa mitologia tradotta ai nostri tempi! Insomma Giunone se ne accorse e pretese la giovenca in dono e Giove per non tradirsi fu costretto a regalarla alla furente consorte. La ninfa ammuccata fu condannata dapprima a pascolare sotto il vigile Argo, un gigante con cento occhi, peraltro suo fratello. Poi, dopo che Argo fu ucciso dal solito Mercurio, inviato da Giove per riavere l’amata, dovette girare senza pace per terra e mare, fino all’arrivo in Egitto. Lì finalmente, su intercessione di Giove, placata Giunone, Io riprende il suo aspetto. Viene accolta da Iside, dea egizia della maternità, della fertilità e della magia o, al pari di Demetra, confusa con lei.

Questa cosa del dio che possiede la ninfa Io riflette forse la complessione dell’io, richiama il ripiegamento su di sé di molti di noi, sottoscritto compreso. Una forma di chiusura introspettiva dell’io pensante e adorante se stesso, posseduto, nascosto, soffocato dal divino, specchio di un’ autoreferente, solitaria, narcisistica divinità. Oppure sono tutte segate, anche perché un conto è la ninfa Io e un conto l’io, inteso come ego. Ma ciò mi serviva arbitrariamente per aprire il tema di Narciso, sempre trattato da Ovidio.

Narciso era un personaggio della mitologia greca, famoso per la sua bellezza. Figlio della ninfa Liriope e del dio fluviale Cefiso o, secondo un'altra versione, di Selene ed Endimione e chissenefrega. Più che altro era un giovane così bello che tutti, uomini e donne, s’innamoravano di lui. Nel mito però appare incredibilmente crudele e indifferente: disdegna ogni persona che lo ama, rifuggendo, sembra, sopratutto gli uomini. E d’altronde... Comunque era incurante di tutti e preferiva passare le giornate in solitudine, cacciando. Tra le sue spasimanti c’era la ninfa Eco, costretta a ripetere, poverella, sempre le ultime parole di ciò che le era stato detto; era stata infatti punita da Giunone perché la distraeva con dei lunghi racconti mentre le altre ninfe, amanti di Giove, si eclissavano. Quando Eco cercò di avvicinarsi a Narciso questi la rifiutò. Già lui era narcisista, poi lei con quel disturbo del linguaggio, m’immagino l’intesa. Da quel giorno la ninfa si nascose nei boschi consumandosi per l’amore non corrisposto, fino a rimanere solo una voce. Infine, poiché un amante respinto chiese alla dea Nemesi di vendicarlo, Narciso, per punizione divina, fu condannato a innamorarsi della sua stessa immagine riflessa nell’acqua, che non riusciva ad afferrare. Perciò si lamentava e i suoi lamenti venivano ripetuti da Eco. E sai che palle, fra tutti e due! Finché, resosi conto dell’accaduto, Narciso, struggendosi inutilmente, si lasciò morire. Quando le Naiadi e le Driadi vollero prendere il suo corpo per collocarlo sul rogo funebre, trovarono al suo posto un fiore, cui fu dato il suo nome. Secondo un’altra versione, Narciso, invece morì cadendo nel fiume in cui si specchiava. Amava solo se stesso, era figlio di una divinità fluviale e non sapeva nemmeno nuotare. Bel mi’ Narciso!

In conclusione possiamo dire che il mito dava una spiegazione e un significato all’esistenza e alle passioni del mondo, rappresentando l’oltre mondo. Secondo una scrittrice benevola di favole e di miti, «tutti gli dei e le dee impalmavano i mortali e ciò stava a significare che gli umani erano creature meravigliose tanto da fare innamorare gli dei e che divino e umano erano, al pari, complementari e intrecciati». Ma non erano gli dei ad aver creato gli uomini a loro immagine e somiglianza. Erano gli uomini che avevano concepito divinità simili a sé, con i loro stessi desideri, vizi e debolezze. Con le loro grandezze e miserie, le loro stesse paure e speranze. L’egocentrismo in cui si rispecchiavano e l’autocompiacimento che faceva loro eco.

E quanto alle avventure amorose di Giove e degli dei pagani, anche dopo il politeismo, secondo alcune religioni monoteiste, Dio ha tollerato la poligamia, perché esisteva. Nella sua infinita saggezza avrà pensato: lasciamo fare, se ne accorgeranno da soli che è immorale e che oltretutto una sola moglie -anche un marito, ma soprattutto una moglie- è già un impegno parecchio impegnativo. Sennò gli uomini non sarebbero istintivamente monogami. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra», disse Nostro Signore con una certa sicurezza. Penso si rivolgesse prevalentemente alla popolazione maschile. Ma non solo. Nella fattispecie poi si trattava di «un’adultera». E perché considerarla tale, giudicarla, lapidarla? Meglio allora gli amori libertini degli dei, in fondo più umani e liberi di noi. Se non fosse che la morale ci libera dall’istinto dello stato di natura. Buona domenica e buona fortuna.

Libero Venturi

Pontedera, 13 Gennaio 2019

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Publio Ovidio Nasone, Publius Ovidius Naso, era nato a Sulmona nel 43 a.C. Poeta elegiaco romano, uno dei principali esponenti della letteratura latina, autore, oltre alle «Metamorphōses», degli «Amores», delle «Heroides«, dell’«Ars amatoria», dei «Remedia amoris» e di altre opere, fu esiliato dall’imperatore Augusto. Per sua stessa ammissione, due crimini lo persero: un «carmen» e un «error». E dell’errore dovette tacere le colpe, come scrisse nei «Tristia». Fu forse una forma di censura per la sua letteratura «immorale» o la sua condotta licenziosa a corte a determinare la messa all’indice del poeta da parte di Augusto, «praefectus moribus». Oppure la «relegatio» lo colpì per aver partecipato a congiure di successione o manifestato dissenso contro l’impero. Gli imperatori solitamente non approvano più di tanto metamorfosi, cambiamenti o dissensi vari. Insomma, caduto in disgrazia, fu relegato nella lontana Tomis, l’odierna Costanza, allora un piccolo centro e porto sul mar Nero. In Romania, ma lontano da Roma, Ovidio, nonostante le sue reiterate e prostrate suppliche, rimase confinato per dieci anni, fino alla morte, avvenuta nel 17/18 d.C.

Libero Venturi

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