Gli umani
di Marco Celati - lunedì 28 novembre 2016 ore 09:28
Una notte fredda, una grande luna, brillante come non mai. Guardo dalla finestra che divide il dentro dal fuori, quella su un piccolo tavolo dove lui sta chino, la notte, e muove rapido le dita delle zampe anteriori, picchiettando su un oggetto piatto e luminoso. La luna rischiara le cose, una luce più pallida del sole di giorno, ma questa notte ogni cosa si vede di più. Il gatto bianco malandato si aggira a caccia di cibo. Dorme fuori, qua e là, almeno fin dove posso vedere. Sotto ci sono uomini, si affacciano, rientrano, a loro è consentito, come al gatto bianco malandato. Gridano strani suoni e muovono le mani senza senso, di continuo, e non si capisce cosa dicono o cosa vogliono. È un linguaggio gutturale, di voci secche, comandi duri. Non possiedono la nostra lamentosa, miagolante cadenza. Solo a volte quando emettono suoni più armoniosi e cantilenanti: una musica che talora ascoltano anche da strani apparecchi. Ma non sempre. Poche volte.
Lui è dentro, accovacciato davanti ad una scatola dove appaiono figure che si muovono e fanno rumore. Ho provato a girarci dietro, non c'è niente, le figure sono dentro la scatola. Escono quando lui vuole; punta una specie di bastone piccolo e scuro e appaiono. Lo ripunta e scompaiono.
Gli umani sono sono strane bestie. Come strane sono le loro cose e abitudini. Più forti di noi, giganteschi, così precari in posizione eretta, stanno a terra, privi di acrobazia. Vivono insieme o da soli, nelle loro dimore. Non si sa perché. Lui mi urla. Mi guarda e mi grida. Non capisco che dice. Io l'ho visto ingombrare il tavolo più grande, dove salto e mi accuccio il giorno, quando lui non c'è e, dall'alto, controllo la casa. I posti dove bevo, dove mangio la carne che mi mette la mattina e la sera, e quello dove stanno dei granelli croccanti: buoni per i miei denti. E di là, dove c'è la terra dove piscio e caco e poi con la zampa ricopro i bisogni. Non so da chi ho imparato. Ho sempre fatto così, da quando mi ricordo. Siamo bestie pulite, noi. E ora lui mette un telo sopra il mio tavolo e sopra ancora questi oggetti piatti e ferri vari con cui prende il cibo e contenitori da cui si abbevera e altro. Ho tirato giù tutta quella roba ingombrante e anche rumorosa a cadere.
Quando cadiamo noi non facciamo rumore. Sempre sulle quattro zampe, in equilibrio, silenziosi, agili: noi sappiamo cadere. È importante. E ora lui urla e fa una faccia feroce. Perchè? Per me è giocare, difendere la posizione, il territorio. Sono scappato in un angolo, dietro un riparo, dove lui non mi può prendere. A volte fa piano, viene dietro e mi afferra, mi carezza, sussurra cose. Lascio fare, mi piace. Faccio le fusa. Escono così e mi viene da muovere le zampe davanti, come quando succhiavo il latte dalla madre, insieme ad altri piccoli, uguali a me. Me ne ricordo, me ne ricorderò sempre. Noi siamo neri, gli uomini quando ci vedono portano le mani in basso, dove hanno il sesso. Indugiano al passo. Fanno con le mani strane figure, sembrano corna. Chissà perché. Forse perché non siamo bianchi, come il malandato, o con il pelo di altri colori.
Quando lui mi carezza drizzo la coda, abbasso le orecchie, muovo le zampe e provo a succhiare, ma non esce niente, mai niente. Non c'è più latte in lui. Però mi va di farlo lo stesso se non altro per rompergli i coglioni. Allora urla e toglie le mani. Ma mi piace stargli d'intorno le volte che c'è.
Poi quando fa buio si immerge in un grande giaciglio. Non capisco se dorme o se muore. Gli cammino sul volto, mi accovaccio su lui. Ma non sembra gradire. Mi scaccia, chiude la porta. Allora mi cerco qua dentro un posto per la notte.
Si capisce che è nervoso e che è solo. Ma non deve essere una bestia cattiva.
Marco Celati
Treggiaia, 16 Ottobre 2016
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Questo racconto deve molto a "Una balena vede gli uomini", il bellissimo e struggente post scriptum di "Donna di Porto Pim" di Antonio Tabucchi, alla cui lettura rimando. La foto è mia, con filtri vari. Per ottenere la luna ho toccato il cielo con un dito.
Marco Celati